Sono ormai giorni che non si parla di altro: D&G e la Cina, la sfilata da milioni di euro annullata e il boicottaggio cinese verso i capi e gli accessori della casa di moda, rea di aver offeso la cultura cinese sia con gli spot che avrebbero dovuto celebrare l’evento, sia con le affermazioni fatte da Stefano Gabbana (o dal presunto hacker!).
Non entrerò nel merito della questione che altri hanno già approfonditamente analizzato ma, appurato che per la realizzazione degli spot, pubblicati su Weibo – uno dei maggiori social network cinesi – non sia stato interpellato un mediatore linguistico interculturale, che non si sia studiato a fondo il target di riferimento e che ci sia spinti con una strategia globale non localizzata in un paese dalla cultura complessa e radicata come la Cina, ciò su cui vorrei soffermarmi e ciò su cui credo personalmente si basi tutta la faccenda, è lo scavalcamento della sottile linea tra provocazione e presunzione.
Da sempre le pubblicità e la comunicazione di Dolce e Gabbana si sono basate su una stereotipizzazione misogina ma al contempo celebrativa, ricca di visioni anacronistiche e spesso paternalistiche, suggestioni forti ed estremizzate, su uno stile fortemente provocatorio smorzato da uno storytelling a tratti perfetto (Tornatore e Morricone non sono scelte casuali).
Uno stile evocativo e forte, che permea la comunicazione di Dolce e Gabbana da sempre e che anche in questo caso è stato utilizzato, forse con troppa leggerezza e tracotanza: cosa che non è stata apprezzata non solo dal popolo cinese, ma anche da tantissime altre persone.
La provocazione è un elemento molto usato in comunicazione e se ben dosato riesce a portare enormi risultati in termini di visibilità e di buzz intorno al brand, esempio tra tutti Taffo che pur toccando una tematica molto sentita come la morte, riesce a fare una comunicazione provocatoria e dissacrante che, vista la genialità con cui è costruita, riesce sempre a strappare un sorriso. Ma Taffo è Taffo.
A volte infatti le provocazioni non ripagano: un esempio lampante è quello di Diesel che ha creato una linea di capi tappezzati di insulti pesanti con uno scopo ben più alto di quanto non sia stato percepito: portare gli insulti degli haters al di fuori del contesto, per renderli innocui e per togliere loro la potenza che invece hanno sul web. “Più odio indossi e meno ti interessa”: una campagna a mio avviso molto ben pensata ma che non ha avuto un buon riscontro dal pubblico, perché letta con superficialità o forse perché di un provocatorio troppo elevato da capire.
La provocazione è quindi un’arma a doppio taglio che deve essere usata con cautela e con cognizione di causa. Quando poi scavalca la sottile linea che sfocia nella presunzione, riesce a fare danni ingenti come quelli accaduti nel caso D&G.
Presunzione che si percepisce non solo nella mancanza di un approfondito studio su una cultura molto differente da quella occidentale, ma anche nell’allusione sessuale che incasella l’uomo cinese nello stereotipo del pene piccolo (il cannolo è troppo grande per te?), la denigrazione di un rito culturale come quello di mangiare con le bacchette e in un velato (ma non troppo) senso di superiorità verso una formazione intellettuale millenaria.
Tutto questo potrebbe anche essere visto nell’ottica di uno scivolone scaturito da una buona dose di superficialità; ciò che è successo dopo però è per me l’esatto esempio della presunzione che può distruggere in pochi attimi la reputazione di un brand.
Le scuse tardive, fatte solo dopo aver gridato a l’hackeraggio dell’account di Stefano Gabbana da cui sono trapelate frasi e affermazioni pesanti sul popolo cinese, appaiono asettiche, forzate e piuttosto presuntuose.
Con toni che tutto sembrano tranne che dispiaciuti, Stefano Gabbana e Domenico Dolce affermano di amare la Cina e la sua cultura e chiedono scusa a tutti i cinesi del mondo “perché ce ne sono molti”. Da queste scuse purtroppo non trapela una reale comprensione di ciò che è accaduto, ma si ha come l’impressione che il video sia stato fatto perché necessario.
A volte chiedere scusa non basta: si deve essere convinti delle scuse che si vanno a porgere, si deve essere consapevoli dei propri errori ed ammettere di aver preso un granchio. Per una volta la provocazione non ha sortito l’effetto sperato perché ha chiaramente oltrepassato la sottile linea che la divide dalla presunzione.